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ARTE E FEDE TRA RIVELAZIONE E CREATIVITÀ
di Gianfranco Ravasi
Il testo che qui pubblichiamo, pronunciato dal Presidente del
Pontificio Consiglio della
Cultura,
Arcivescovo Gianfranco Ravasi, a conclusione dell’
VIII Convegno Nazionale:
“Liturgia ed Arte. La sfida della contemporaneità”
, va oltre l’occasione pur di alto prestigio
che lo ha generato, per imporsi – in forza della luce di verità che lo permea – come invito alla
riflessione profonda di chi ieri lo ascoltò, di chi oggi lo legge, per trarne argomento di rivela-
zione, motivo di speranza.
Studente di teologia alla
Pontificia Università Gregoriana
, ero anch’io in piazza San Pietro
l’8 dicembre 1965, quando i Padri a chiusura del
Concilio Vaticano II
lanciarono, tra i vari
messaggi alle diverse categorie sociali e professionali, queste parole agli artisti:
Il mondo in
cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la
verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura
del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre
mani
.
Purtroppo, a distanza di anni dobbiamo riconoscere che viviamo in un mondo sempre più
aggredito dalla bruttezza estetica e dalla bruttezza morale, tant’è vero che la stessa arte non di
rado rifiuta di confrontarsi sia con la bellezza sia con un messaggio interiore profondo. Ciò è
avvenuto anche nell’esperienza religiosa e liturgica, per cui sarebbe spesso arduo ripetere oggi
l’appello che nell’ottavo secolo il cantore delle immagini sacre, san Giovanni Damasceno,
rivolgeva ai cristiani:
Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede!”, tu portalo in
chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri
.
Infatti, il vincolo stretto tra arte e fede a partire dal secolo scorso si è allentato fino al punto
di infrangersi. Da un lato, in ambito ecclesiale si è spesso ricorsi al ricalco di moduli, di stili e
di generi delle epoche precedenti, oppure ci si è orientati all’adozione del più semplice artigia-
nato o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nel-
l’edilizia aggressiva innalzando edifici sacri simili, come sarcasticamente diceva padre David
Maria Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli. Per fortu-
na non sempre avviene così, ed è stata forse l’architettura ad attestare un primo sussulto di ori-
ginalità e di creatività, sia pure a livello di eccezione.
D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religio-
si, i simboli, le narrazioni, le figure e tutto quel “grande codice” che era stata la Bibbia. Come
si diceva, ha abbandonato come pericolosa ogni proposta di un messaggio, considerandolo un
capestro ideologico, si è consacrata a esercizi stilistici sempre più elaborati e provocatori, si è
rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è affidata a una critica esoterica incomprensibi-
le ai più, e si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato non di rado artificioso ed
eccessivo. Un po’ di verità c’era nella definizione coniata da Henri Meyers a proposito dell’ar-
tista contemporaneo:
Un uomo che non prostituisce mai la sua arte, eccetto che per denaro
.
Riconosciute le colpe reciproche che hanno divaricato sempre più fede e arte, è necessario
ora andare oltre i sospetti e ritornare a incontrarsi proprio come è accaduto il 21 novembre 2009
davanti all’emozionante fondale michelangiolesco della Sistina, quando Benedetto XVI, rivol-
gendosi agli artisti delle più diverse discipline e di ogni regione del mondo, ha voluto lanciare
la prima battuta di un dialogo che attende la risposta libera e creativa degli stessi artisti, i quali
naturalmente dovrebbero parlare con le loro opere.
Noi ora non vogliamo ripercorrere l’itinerario che è alle nostre spalle, il cui fulgore è visi-
bile in ogni città europea, né desideriamo ritornare sulle ragioni teologiche di questo incontro
tra arte e fede: esso ha il suo cuore nell’ Incarnazione che, come scriveva San Paolo ai
Colossesi (1, 15), rende visibile il Dio invisibile nel volto di Cristo,
eikòn
, “icona-immagine”
divina perfetta. Nel IX secolo un teologo della Chiesa d’oriente, Teodoro Studita, non esitava
ad affermare che
se l’arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si
è incarnato
.
Non è neppure nostra intenzione mettere sul tappeto l’insonne questione della definizione
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