CineArte on line 2007 - 213 - page 483

SIMILE ALLE OMBRE E AL SOGNO
Questo che segue è il brano introduttivo della premessa ad un'opera recente del filosofo Paolo
Spinicci, non nuovo – da più di quindici anni – a tale genere di indagine in profondità, sui temi
della visione, della rappresentazione e del linguaggio, dal titolo accattivante:
Simile alle
ombre e al sogno. La filosofia del linguaggio
(Bollati e Boringhieri, Torino 2008, pp. 278
Euro 20,00). A presentare il volume è lo stesso Autore. Poiché questa nostra rivista si è occu-
pata con successo, in termini per il vero più facilmente accessibili a chiunque, della natura e
della fenomenologia dell'immagine, riteniamo di fare cosa grata ai più preparati ed esperti fra
i nostri lettori, riproducendo a guisa d'invito motivato alla lettura, questo minimo estratto di
una calibrata dichiarazione d'intenti non priva di accenti poetici, che nelle pagine del libro
trova la sua penetrante e affascinante esplicazione.
Il titolo e il sottotitolo di questo libro chiedono forse una parola di commento. Il titolo ha un'eco
antica: ricorda un passo molto bello e molto noto dell'Odissea. Ulisse si è spinto ai confini
dell'Oceano, fino alle porte oscure dell'Erebo, dove si affollano le «anime dei travolti da
morte»: tra queste, Ulisse scorge sua madre, gli occhi chini a terra, in silenzio. Basta tuttavia
che Ulisse le conceda di accostarsi a lui e di bere il « nero sangue fumante» perchè Anticlea lo
riconosca e gli parli e perchè Ulisse, commosso, per tre volte cerchi di stringerla a sé, in un
gesto che certo obbedisce alla logica corporea degli affetti, ma che non può avere cittadinanza
nel mondo esangue e immateriale dell'Erebo: per tre volte quel corpo che pure si staglia così
chiaro di fronte agli occhi si sottrae all'abbraccio, «all'ombra simile o a un sogno» (Odissea,
XI, 207)
Anche le immagini sono fatte così: sono, a loro modo, simi-
li alle ombre e ai sogni, ma spesso ci basta guardarle per sen-
tirci trascinati in un gioco che tocca i nostri affetti, che orien-
ta i nostri pensieri e che ci coinvolge. Vediamo i mondi che
le immagini ci porgono e ci basta uno sguardo per coglierne
la consistenza eterea; da queste ombre, tuttavia, ci lasciamo
smuovere e da quei sogni ci facciamo trascinare in giochi che
possono assumere una piega molto seria e che possono coin-
volgerci in profondità. Proprio come Ulisse, anche noi spet-
tatori non possiamo fare a meno di lasciarci toccare da ciò
che vediamo; eppure quando guardiamo un quadro vediamo
bene che ciò che abbiamo di fronte agli occhi ha la consisten-
za umbratile delle immagini. Vediamo e immaginiamo insie-
me, ma ciò che vediamo – un mondo dipinto che ha la con-
sistenza fenomenica di ciò che si dispiega soltanto allo
sguardo – si lega, in un intrico difficile da dipanare, alla
trama complessa dei giochi immaginativi: ciò che è di per sé
simile alle ombre assume la forma coinvolgente del sogno.
Di qui l'argomento di questo libro: vorrei cercare di indicare
dove corra il confine che separa ciò che nel nostro rapporto
con le raffigurazioni dipende dal gioco dell'immaginazione e
della narrazione e ciò che invece si fonda sulla dimen-sione puramente percettiva delle imma-
gini, sul nostro semplice vedere ciò che esse ci mostrano. Come debba essere tracciata la linea
che segna questo confine è un compito che sarà affrontato dalle pagine che seguiranno e non
credo sia opportuno tentare qui di racchiudere in poche parole ciò che assume un senso solo in
virtù di un percorso argomentativo più ampio. Un punto tuttavia può essere chiarito sin d'ora:
io penso che si sia soliti attribuire all'immaginazione un insieme di compiti che non le spetta-
no e che la dimensione immaginativa sia chiamata in causa non dal concetto di raffigurazione
in quanto tale, ma solo dall'uso che delle raffigurazioni facciamo quando ci dichiariamo dispo-
nibili al gioco che ci propongono. Per vedere in un ritratto un volto dipinto non vi è bisogno di
nulla se non degli occhi, anche se vi è bisogno di un poco di immaginazione per sentirsi spia-
ti o giudicati da ciò che vediamo disegnarsi nella disposizione delle tempere su di una tavola.
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