CineArte on line 2007 - 213 - page 423

QUANDO PER VIVERE FACEVA LA COMPARSA
di Attilio Bertolucci
Nella tarda primavera del ‘51, tiepida, piovosa e odo-
rosa di caffè in grani che molti bar tenevano in vista
dentro grandi sacchi aperti, stavo “in prova” a Roma.
Non insegnavo più, scrivevo i parlati dei documentari
di Antonio Marchi, molte ore al giorno le passavo con
lui in moviola, alla Fonoroma. Abitavamo al Tritone,
in un appartamento aereo ma senza ascensore, che
Anna Banti ci aveva affittato. Viveva con noi anche
Malerba, allora un po’ Bonardi: il suo vero, rassicu-
rante cognome, da lui abbandonato per il tenebroso
Malerba.
Avevo da pochi giorni pubblicato
La capanna indiana
quando una mattina arrivò su Giorgio Bassani con un
giovane non tanto alto, che non portava la giacca,
come tutti in quegli anni, ma un maglione vagamente
norvegese. Non che fosse timido, era riservato, parla-
va poco, sorrideva come da chi sa dove. Si chiamava
Pier Paolo Pasolini. Dissi a Bassani che mi sentivo
molto triste lontano dai miei, lui rispose che se tenevo
duro un anno era fatta. Ho tenuto duro ma non è fatta neppure oggi. Eravamo tutti esiliati dal
Nord in quel tiepido, piovoso maggio del Centro Sud. Pasolini continuava a scrivere bellissi-
me poesie in friulano, ma si preparava a comporre L
e Ceneri di Gramsci.
A un certo punto entrò Malerba con la sua bottiglia del latte, ne beveva moltissimo. Aiutava
Lattuada che stava girando un film in cui Silvana Mangano doveva fare la suora. Pasolini si
fece coraggio, cavò fuori un tesserino da comparsa cinematografica che teneva unito a quello
dell’abbonamento al tram (immagino che lo mostrasse, particolarmente muto, ai bigliettai stra-
lunati delle circolari notturne con già indosso la sua
apetencia de muerte
, la sua fame di imma-
gini e di parole nuove, eccitanti per lui venuto da fuori). Malerba promise con gentilezza di
farlo lavorare. Prima di andarsene Pasolini mi lasciò un giornale, pregandomi di non guardare
la prima pagina, secondo lui “orrenda”. Non era che comica, coioè monarchica. In terza c’era
una sua recensione al mio libro. Aveva capito tutto, ero commoso e quasi spaventato. Prima di
lui avevano parlato soltanto di idillio, lui parlava acutamente di nevrosi.
Pasolini era molto povero, tanto da dover fare la comparsa e scrivere su quei giornali, ma volle
che andassi a pranzo a casa sua, a Ponte Mammolo, dove ci sono le carceri di Rebibbia, abita-
zione provvisoria di tanti suoi meravigliosi personaggi, ragazzi allegri e tragici, inventati dal
vero con piglio caravaggesco. Gli portai Carlo Emilio Gadda che non conosceva e adorava.
Qualche anno dopo, facevo pigramente il
talent-scout
per Livio Garzanti e combinai un incon-
tro del giovane scrittore col giovane editore. Pier Paolo, ci chiamavamo già per nome, abitava
vicino a me a Monteverde Vecchio, ora, in una casa abbastanza spaziosa e borghese: insegna-
va, potevano contare sul suo mensile oltre che sulla pensione del padre, in famiglia. Era stato
appena pubblicato su “Paragone” il suo racconto
Ferrobedo
e io lasciai una copia della rivista
in albergo a Garzanti perchè la leggesse. Garzanti, entusiasta, volle vedere Pasolini. Appena lo
salutò, finse di snobbarlo; poi, all’improviso, gli disse di smettere di insegnare, voleva il suo
romanzo entro un anno, voleva tutti i suoi libri. Gli avrebbe dato intanto il doppio di quanto
guadagnava alla “media” di Centocelle, che egli raggiungeva con chissà quali mezzi alzando-
si prestissimo. Così Pier Paolo poté scrivere con un certo agio
Ragazzi di vita.
Passati vent’an-
ni, nell’ottobre del ‘75, mia moglie ed io abbiamo passato tutta una quieta giornata di sole a
Chia ospiti di Pier Paolo. A vedersi era cambiato poco, da quando io lo avevo conosciuto; ma
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P. P. Pasolini nella sua stagione romana
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